Altro che eleganza. Nel Made in Italy trionfa il banale, la mancanza di idee, ma soprattutto una volgarità da bordello. «Per la moda italiana è il tempo delle zoccole» titola l'autorevole New York Times, usando un termine desueto («trollop») rivolto a tutte quelle signore ad alto esponenziale felino che vestono tigro-maculato, con ammiccanti jeans strappati o tagliuzzati.
L'accusa secca e inequivocabile: «Avete perso la vostra invidiabile raffinatezza. Nei vestiti, ma anche nel resto, come anni fa aveva per primo intuito Pier Paolo Pasolini».
Una mazzata fra capo e collo, violenta e senza pietà che scuote la già frastornata settimana della moda milanese. Un attacco che segue vecchie polemiche sul calendario milanese, ritenuto troppo lungo ma anche i freschi veleni d'un paio di giorni fa quando Giorgio Armani ha tirato pubblicamente le orecchie a una giornalista proprio del New York Times («Qui non verrà mai più») che aveva criticato la sua ultima collezione. C'è già chi parla di sottile e rapida vendetta, ma l'articolo è molto più variegato e Armani non ha una parte da protagonista. E allora? Semplicemente, dopo averci seguito con l'ammirazione degli scolaretti alle prime armi, gli americani non ci considerano più i loro professori. E ci contestano. Per diversi motivi.
Primo, la stanchezza creativa di troppi stilisti. «In questa tornata - ricorda crudelmente il quotidiano - sono in programma 228 sfilate in 7 giorni ma in realtà quelle che valgono la pena d'essere viste si contano sulle dita di una mano». Eccole: Bottega Veneta, Jil Sander, Prada, Gucci e Marni. Con l'annotazione che soltanto Gucci e Marni sono disegnati da veri italiani perché le prime due hanno creativi stranieri e a Miuccia Prada, il New York Times conferisce uno status stilistico-intellettuale ad honorem di transnazionalità: non a caso ha trasferito la sua linea Miu-Miu a Parigi.
Altro motivo del tragico decadimento: l'utilizzo sempre più massiccio, per motivi economici, di tessuti e mano d'opera da Europa dell\'Est, India e soprattutto Cina. Buona roba per carità ma, sembrano dire, la raffinatezza (termine in italiano) è un'altra cosa cari ex professoroni. «Per la moda italiana è il tempo delle zoccole? E allora - rispondono Domenico Dolce e Stefano Gabbana, presi di mira nell'articolo, per essersi arricchiti vestendo una generazione che forse legge un libro all'anno (magari) e sta incollata sempre alla tv - vuol dire che negli Stati Uniti abitano moltissime zoccole. Noi lì, come tanti colleghi italiani, vendiamo alla grande. Come la mettiamo?». «In più - continua Stefano, polemico anche per la censura spagnola contro l'ultima campagna pubblicitaria considerata istigazione allo stupro - è ridicolo che gli americani ci diano lezioni. La loro moda è del tutto inutile e l'unico vero nome creativo è Marc Jacobs, che infatti dovrebbe sfilare qui a Milano».
L\'ipotesi che da parte americana si faccia fronte comune, che cioè un sottile filo a stelle e strisce leghi stampa e industria della moda, è abbastanza condiviso anche da Giorgio Armani. «I giornalisti americani scrivono con il cuore non con il cervello: ai loro connazionali che da sempre ci copiano in modo spudorato, perdonano tutto o quasi. Noi invece siamo spesso massacrati in modo pretestuoso e questo non può essere accettabile». Anche la generalizzazione e la spregiudicatezza del titolo da bordello lasciano qualche perplessità. «Non so quante collezioni italiane abbia visto quel signore - si chiede Silvia Venturini Fendi - però come fa a fare di ogni erba un fascio? Forse c\'è gente che sfila, senza meriti ma ognuno risponde del suo stile».
Altro punto dolente la mancanza di nuovi virgulti, come ricambio degli ormai sempre più anziani padri del Made in Italy. Sempre stesse facce e, di conseguenza, stessa solfa. Di possibili eredi, nessuno vuole parlare. A proposito di svecchiamento, nell'articolo c'è anche la voce di Anne Wintour, direttrice di Vogue America, severa contro «l\'immobilismo della Camera della moda». «Dispiace dirlo - ribatte il presidente Mario Boselli -, ma l\'invidia è una gran brutta bestia. La nostra qualità resta la migliore, i nostri marchi i più apprezzati, il nostro bilancio il più attivo. Nuovi stilisti? Non si inventano, ma con l'aiuto del Comune abbiamo aiutato a mettere in piedi dieci nuove giovani imprese di moda. Andarsene da Milano? Molti vorrebbero venirci».
fonte:corriere.it